Cgil: stop alle mistificazioni, se passa il referendum netto cambio di rotta in termini di maggiore tutela dei lavoratori e delle lavoratrici
Con il primo quesito, si chiede l’abolizione integrale del decreto legislativo n. 23 del 2015 (emanato in attuazione del cosiddetto “Jobs Act”), con il quale si privano della copertura dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori i nuovi assunti, garantendo loro una tutela meramente economica, e non più reintegratoria, nella gran parte dei licenziamenti e soprattutto in quelli motivati da ragioni economiche. Poiché tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 sono molto meno garantiti di quelli che ancora godono delle tutele dell’art. 18, sanare questa ingiusta disparità andrebbe indubbiamente nella direzione non solo della lotta alla precarietà ma anche della ricomposizione del mondo del lavoro, anche considerando che, secondo i dati statistici, ad oggi, gli occupati assunti dopo il 7 marzo 2015 sono oltre 3 milioni e 500 mila persone e continueranno ad aumentare progressivamente
Chi intende strumentalizzare sostiene che questo referendum sarebbe ormai inutile alla luce delle modifiche contenute nel cosiddetto “Decreto dignità”, e soprattutto delle sentenze nel frattempo emanate dalla Consulta con le quali si ridimensiona il progetto contenuto nel Jobs Act, modificando significativamente il contratto a tutele crescenti ed avvicinando di nuovo la disciplina dei licenziamenti al modello dell’art. 18.
Ciò, da un lato, conferma – cosa che i critici del referendum, in passato, non hanno mai evidenziato – che quel progetto era fortemente viziato dal punto di vista della coerenza con i principi costituzionali; mentre, dall’altro lato, non è vero che le due tutele (quella dell’art. 18 e quella del Jobs Act, anche con le modifiche apportate dalla Consulta) siano oramai le stesse perché è esclusa la reintegrazione per i nuovi assunti in svariati casi e, in particolare, nei licenziamenti economici, tranne rare eccezioni e cioè quando manchi del tutto il fatto giustificativo.
Proprio per questo è del tutto mistificatoria e fuorviante la tesi di chi sostiene che il Jobs Act, a confronto con l’art. 18 dal punto di vista delle mensilità di risarcimento (36 contro 24) è più tutelante nei confronti del lavoratore, dimenticando che l’articolo 18 – ancora oggi – prevede come regola tendenziale la reintegrazione, mentre il decreto n. 23 si limita a monetizzare con il risarcimento la maggior parte dei casi di licenziamento illegittimo.
D’altra parte, i risarcimenti liquidati dai giudici sulla base del Jobs act, specie per chi non vanta un’anzianità di servizio rilevante, sono ancora di molto inferiori a quelli che spetterebbero ove si applicasse l’art. 18 (v. oltre).
Più in particolare, confrontando l’art. 18 (rivisto dalla l. n. 92/2012) con il decreto n. 23/2015, seppur rivisto dalla Consulta, emerge che tuttora il decreto n. 23 è penalizzante perché:
A) Non consente la reintegra nei seguenti casi:
1) in caso di licenziamento individuale per motivi economico/organizzativi (c.d. licenziamenti per giustificato motivo oggettivo) l’art. 18 prevede che, eliminata la postazione di lavoro, il lavoratore debba essere ricollocato in altro posto disponibile (cd. repêchage); se il datore di lavoro non lo fa, il licenziamento illegittimo dà luogo alla reintegra; nel Jobs Act invece c’è solo il risarcimento.
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2) L’art. 18 prevede che il licenziamento disciplinare debba rispettare quanto previsto dal contratto collettivo di categoria, pena la reintegra. Il decreto n. 23/2015, dopo l’intervento della Corte costituzionale, lo prevede solo in parte, stabilendo come regola solo il risarcimento, quando il contratto collettivo per il caso contestato non contenga specifiche ipotesi disciplinari che espressamente puniscano il comportamento con una sanzione minore (rimprovero o richiamo, multa o sospensione).
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3) Nei licenziamenti collettivi, se vengono violati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare – per es. vengano licenziati i lavoratori più anziani o con più carico di famiglia al posto dei più giovani che rimangono in servizio – nell’art. 18 c’è la reintegra; nel decreto n. 23 c’è solo il risarcimento. Con l’effetto paradossale che, a fronte di un unico licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, alcuni lavoratori otterrebbero la reintegra mentre altri il solo risarcimento.
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4) Se il licenziamento viene realizzato in caso di malattia prima della scadenza del periodo di comporto, l’art. 18 prevede la reintegra, mente il decreto n. 23 prevede il risarcimento.
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B) Anche negli altri casi in cui l’art. 18 prevede il risarcimento, esso è più conveniente rispetto a quanto previsto dal decreto n. 23, perché:
1) il minimo risarcitorio è di 12 mensilità nell’art. 18; nel decreto n. 23 invece è di 6 mensilità; quindi, eliminando il decreto n. 23, moltissimi lavoratori licenziati illegittimamente che hanno contratti dopo il 7 marzo 2015, specie quelli con poca anzianità di servizio, avrebbero 12 mensilità e non soltanto 6.
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2) Se il licenziamento è privo di motivazione e quello disciplinare non rispetta la procedura, il minimo risarcitorio è di 6 mensilità nell’art. 18, mentre invece è solo di 2 mensilità per il decreto n. 23/2015.
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3) La retribuzione su cui calcolare il risarcimento è più favorevole nel caso dell’art. 18, perché viene presa a riferimento quella complessivamente percepita dal lavoratore prima del licenziamento, mentre per il decreto n. 23/2015 vale solo la più limitata retribuzione utile per il TFR.
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C) Eliminazione della procedura conciliativa ex art. 7 legge 604/1966
Da ultimo, è da evidenziare che l’abrogazione del Jobs act reintrodurrebbe la particolare procedura conciliativa nei casi di licenziamenti economici: per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, infatti, è vietato procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 senza aver preventivamente attivato un tentativo di conciliazione presso la sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del lavoro. Il datore di lavoro deve quindi prima manifestare, motivandola, l’intenzione di licenziare, e solo dopo la comparizione davanti alla Commissione di conciliazione – e solo nel caso in cui non si sia raggiunto un accordo – potrà procedere al licenziamento. Tutte queste garanzie, che hanno anche l’effetto di ridurre il contenzioso giudiziario, sono state cancellate dal Jobs Act.
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D) Computo dell’anzianità negli appalti
Un’altra norma che verrebbe travolta dall’abrogazione referendaria del decreto 23/2015 è l’articolo 7, il quale tiene conto dell’anzianità maturata dal lavoratore occupato sull’appalto oggetto di successione ma solo ai fini del computo dell’indennizzo dovuto in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento, disponendo, a tal fine, che “l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata. Il “vecchio” assunto, ovvero colui che ha già prestato la propria opera nell’ambito dello stesso appalto oggetto di cessione ad altro imprenditore, è destinato dunque, anche qualora riesca a conservare il suo posto di lavoro, ad essere equiparato a un “nuovo” assunto ai fini della tutela applicabile in caso di licenziamento illegittimo, con conseguente pregiudizio del regime di stabilità precedentemente goduto.
Nota a cura dell’Ufficio Giuridico Cgil nazionale
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